I requisiti si differenziano tra competenze e abilità (skills): le prime innate e necessarie per approcciare l’attività e comprenderne il funzionamento, le altre ad affrontare le sfide che questa propone.
Con “competenza” intendiamo infatti una capacità conscia, come conoscere la lingua in cui il gioco è scritto o avere familiarità con i controlli e il medium videoludico in generale. Sono tutti prerequisiti che inevitabilmente tagliano fuori del pubblico potenzialmente interessato, ma “incompetente”, spesso senza che il designer possa intervenire a riguardo. In generale, il giocatore necessita di riuscire ad interagire con l’interfaccia, comprendere e relazionarsi a ciò che sta succedendo e valutare il feedback correttamente.
Le skills sono invece capacità non richieste quando si inizia a giocare, ma acquisite e perfezionate proprio durante il gameplay in modo quasi inconscio. Ogni nuova meccanica o sfida complessa presentata permette di allenare una o più abilità, seguendo l’avanzare graduale della curva di difficoltà. Se ben progettato, un gioco permette di sviluppare le proprie skills fino alla padronanza totale sul sistema.
Per permettere all’utente di approcciarsi al gioco nel modo giusto, o anche solo per essere comprensibile, ogni titolo deve essere fondato sul funzionamento della mente umana. Un’esperienza divertente ha bisogno di integrare le modalità di percezione e relazione con il mondo che ognuno di noi usa inconsciamente, in quanto per il nostro inconscio non c’è pressoché alcuna differenza tra reale e virtuale.
L’obbligo inscritto di semplificare e schematizzare le nostre percezioni per facilitarne la comprensione. I modelli così ottenuti saranno sempre imperfetti e riduttivi, ma rispecchiano la nostra conoscenza limitata della complessità della realtà. I giochi con le loro regole semplici e calcolabili, o i cartoni animati con il loro stile facilmente leggibile, sono schemi precostruiti e piacevoli da fruire, perché assorbirli e padroneggiarli richiede poco sforzo.
È la tendenza a riempire i buchi conoscitivi con costruzioni personali, derivanti dalle informazioni e i modelli nella nostra mente. Il pensiero creativo e la formulazione di teorie provocano facilmente divertimento per motivi evolutivi, in quanto strettamente legati al problem-solving e la comunicazione tra individui. Il punto cruciale a livello di design sta nel mantenere il giusto equilibrio tra informazioni certe e spazi da colmare con la propria immaginazione.
Il potere di immedesimarsi in un’altra identità e simulare ciò che percepisce e prova. Questa capacità è alla base della socialità umana, nonché dello storytelling e del roleplaying. Tuttavia anche nei rapporti sociali di tutti i giorni non empattizziamo mai con individui reali, ma con le loro proiezioni derivanti da modelli mentali. Per questo motivo possiamo facilmente essere ingannati da personaggi e avatar virtuali, progettati per simulare emozioni che esistono solo nella nostra testa. Il gioco come forma di problem solving è di per sé una spinta alla proiezione empatica (mimicry), perché pone il giocatore a ragionare sulle proprie scelte da un altro punto di vista.
La capacità di direzionare selettivamente l’attenzione. Se immersi in un’esperienza adeguatamente coinvolgente, il focus prolungato permette lo stato di flow, in cui tutto il mondo al di fuori dell’attività cessa di essere percepito. Per ottenere tale risultato è importante creare un ciclo ricorsivo di accumulo e rilascio della tensione, ovvero una sfida con esito incerto seguita da un adeguato premio.
Il designer non può intervenire sulle competenze pregresse del pubblico, ma se si parla di abilità è vero il contrario. Le skill richieste per giocare e i metodi per svilupparle vanno studiati con cura, perché determinano il cuore della user experience.
In questo articolo trovi un elenco esaustivo di skill che vari generi videoludici richiedono agli utenti.