I videogiochi sono a tutti gli effetti sistemi di apprendimento.
Siamo in presenza di un sistema ogni volta che un comportamento complesso emerge dall’interazione tra elementi discreti. Una volta innescato, il sistema ludico provoca piacere principalmente grazie alle regole. In base a come esse sono costruite e combinate in modo creativo, produrranno sfide appaganti che mettono alla prova determinate abilità dell’utente. Ogni situazione offre uno spazio di possibilità più o meno limitato, in cui declinare le proprie conoscenze, capacità e sentimenti. Gli ostacoli dall’esito incerto, ma percepiti come superabili, accendono la motivazione per affrontare le prove proposte e migliorarsi.
La curva di difficoltà di ogni gioco quindi, non è altro che una visione formale del processo di apprendimento previsto nel giocatore. L’unico modo che questi ha per comprendere il sistema complesso è farne esperienza, testare le meccaniche ripetutamente e analizzare le differenze tra gli esiti.
L’utente si ritrova a studiare di continuo il gioco, consapevolmente o meno, al fine di padroneggiarlo, o nel migliore dei casi conoscerne addirittura tutti i segreti e retroscena.
L’estetica e la narrazione dell’opera sono componenti marginali in questo senso, in quanto la loro qualità non intacca un sistema di regole già di per sé divertente. La forma dei pezzi degli scacchi, ad esempio, non influisce sulla struttura della partita, e allo stesso modo una trama ben strutturata non è sufficiente per salvare un gioco noioso o mal progettato. Nei casi di massimo impegno e padronanza del sistema infatti, i giocatori tralasciano volutamente le informazioni irrilevanti, concentrando tutta l’attenzione sulle meccaniche fondamentali in atto.
L’Ipotesi sulla riduzione dell’informazione di Haider e Frensch illustra proprio questo: guardare al mondo di gioco solo come un insieme di regole precise ed interconnesse permette performance migliori per la possibilità di focalizzarsi su meno dati.
Perché allora la fiction?
Essa è fondamentale per introdurre l’utente al sistema, per dare un senso logico a certe azioni e ai loro risultati, per stabilire un obiettivo di volta in volta mosso dall’emozione e non solo dai numeri.
In estrema sintesi, giocare vuol dire imparare a giocare.
Esistono 2 modi principali per innescare il processo di apprendimento, che portano a modalità di gioco altrettanto differenti:
- Struttura emergente (sandbox): La combinazione di determinate regole immutabili genera situazioni sempre varie ed interessanti (come nella maggioranza degli sport e gioco da tavolo, ma anche in titoli come Pong o Tetris). Il modello non presenta un ordine definito per le sfide, ma lascia che sia l’utente a sperimentare e interagire con l’ambiente, gli avversari e le situazioni possibili. Un gioco emergente potrebbe non avere mai fine, ma comporsi di un numero illimitato di partite singole. Gli sfidanti o il contesto cambiano, ma ciascuna di esse è un riflesso possibile dell’esperienza complessiva.
A prescindere dalla struttura adottata, sia le regole che la fiction permettono al gioco di essere distinguibile dalla vita quotidiana.
Il regolamento definisce uno spazio limitato in cui il sistema di norme è valido e la narrazione introduce il giocatore ad un mondo fittizio nettamente distinto da quello reale. L’esperienza videoludica si svolge quindi a metà tra questi due ambienti, in quanto le azioni compiute nel mondo fisico (premere pulsanti su un controller) hanno un impatto diretto e quantificabile in quello virtuale. Le reazioni sono finzionali, ma le azioni e le regole che le generano sono assolutamente reali.
Il videogioco è stato perciò definito come forma d’arte “half-real” dal professor Jesper Juul.
Scelta la struttura alla base del gioco, il passo successivo è stabilire le relazioni tra i suoi elementi fondamentali. Se il pubblico non riesce a comprendere il funzionamento del sistema, esso fallisce a prescindere come forma di apprendimento ed intrattenimento.
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